"la clase operaia è andata all'inferno"

giovedì 30 aprile 2009

storia del primo Maggio


A Parigi, nel luglio 1889, il Congresso operaio, costitutivo della Seconda Internazionale, aveva proclamato una giornata in cui i lavoratori di tutto il mondo avrebbero manifestato per far applicare le risoluzioni del Congresso e, in particolare, per ottenere la riduzione della giornata lavorativa a otto ore. Questo obiettivo specifico determinò la scelta della data del Primo maggio: quel giorno, nel 1886 a Chicago, una grande manifestazione operaia per le otto ore era stata repressa nel sangue.

La prima celebrazione del I maggio si ebbe dunque nel 1890
dopo che i lavoratori erano stati sensibilizzati sul significato di quella giornata. Leggiamo su un volantino, diffuso a Napoli il 20 aprile: "Lavoratori, ricordatevi il Primo maggio di far festa. In quel giorno gli operai di tutto il mondo, coscienti dei loro diritti, lascieranno il lavoro per provare ai padroni che, malgrado la distanza e la differenza di nazionalità, di razza e di linguaggio, i proletari sono tutti concordi nel voler migliorare la propria sorte e conquistare di fronte agli oziosi il posto che è dovuto a chi lavora. Viva la rivoluzione sociale! Viva l'Internazionale!". (...)

Nell’agosto del 1891 il secondo congresso dell’Internazionale ne sancì infatti il carattere permanente. Negli anni successivi il Primo maggio divenne sempre più una "festa in sé", sempre meno vincolata all’obiettivo originano delle otto ore e ricettiva invece delle domande e dei bisogni, via via avvertiti dal movimento operaio. Accompagnandosi alla crescita politica e organizzativa del movimento dei lavoratori, il Primo maggio si affermava come la "data d’oro" del socialismo.

Tra Otto e Novecento non cessò mai la disputa
. sul significato più autentico della festa e sul fatto stesso se si potesse o meno parlare di festa. Sia in anni difficili che in quelli più tranquilli rimase viva — come nota Antonioli — "la contraddizione, praticamente insanabile, tra caratterizzazione festiva e opposizione alla festa, contraddizione che appariva .evidente nella stampa socialista. dell’epoca. Capitava così che, nello stesso giornale, nella stessa pagina, l’uno accanto all’altro, figurassero articoli dal tono completamente diverso, con invito nell’uno a "fare del Primo maggio un giorno di festa, di vacanza, di riposo", e aperta diffida, nell’altro, "alle connotazioni festive". (...)

Si sapeva, un po’ vagamente, che era in memoria di quelli che avevano lottato per le otto ore, i martiri di Chicago. E quindi già questo fatto era simbolico… e poi era una festa così, c’era il garofano rosso; era una manifestazione di lotta, e affluivano molti...riuniva tutti. Al Primo maggio trovavi anche gli anarchici con i loro simboli, come la conquista del pane e trovavi anche le parole d’ordine - come chi non lavora non mangia", in cui si sentiva anche l’influenza della rivoluzione russa sul nostro movimento operaio" (...).

Con il fascismo al potere la festività viene soppressa
.(...) Mussolini volle subito sradicare l’attaccamento dei lavoratori da quella data così carica di significato. Durante il ventennio la "festa del lavoro" fu fatta coincidere con la celebrazione imperiale del natale di Roma, il 21 aprile.

Già nel 1923 vennero predisposte misure per scoraggiare l’astensione dal lavoro, ma furono in molti a sfidare il divieto. L’anno dopo il clima di repressione si fece ancora più soffocante e lo stesso giornale socialista Avanti! invitava a celebrare il Primo maggio "come è possibile ad ognuno". Negli anni della dittatura quella data mantenne ed anzi rafforzò tutta la carica sovversiva e furono numerosi gli episodi di antifascismo che si verificarono in occasione del i maggio.

Il Primo maggio tornò a celebrarsi nel 1945
, sei giorni dopo la Liberazione, nel clima di grande esaltazione per la riacquistata libertà. Circa trent’anni doto, nel 1974, un’analoga, felice coincidenza fu vissuta dai lavoratori portoghesi: il 25 aprile la "rivoluzione dei garofani" aveva spazzato via il regime fascista e a Lisbona, per la prima volta da 48 anni, 700.000 persone sfilarono in festante corteo per il Primo maggio.

Dal 1946 il Primo maggio assunse anche una connotazione elettorale, allorché venne a cadere alla vigilia di importanti consultazioni. Così fu già nel 1946, quando dai palchi, su cui campeggiava la suggestiva scritta "Primo maggio, primavera della democrazia", si ribadì la scelta in favore della Repubblica. Ancora nel 1953 la festa del lavoro fu caratterizzata dalla lotta alla "legge truffa". Nel 1974, con Cgil e Uil schierate sul fronte divorzista e la Cisl formalmente neutrale ma con molti suoi esponenti tra i "cattolici per il no", il Primo maggio fu un momento importante della mobilitazione in difesa della legge Fortuna Baslini.

Dopo il Primo maggio del 1947, segnato tragicamente dalla strage di Portella della Ginestra
, quello del 1948 fu l’ultimo celebrato dalla Cgil unitaria. I prodromi della scissione sindacale si manifestarono proprio in occasione della festa del lavoro, che si svolse in un clima di acuta tensione dopo l’esito elettorale del 18 aprile. A Roma Giulio Pastore e altri esponenti democristiani abbandonarono il palco degli oratori, adducendo a pretesto che nella piazza c’erano troppe bandiere rosse. (...)

(estratto da Rassegna sindacale n.17 del 1° maggio 1987)

sabato 25 aprile 2009

Le piazze rubate del 25 aprile

dal Manifesto del 25/04/2009
Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l'equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni - l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori. Ma con ciò il dualismo non scomparve: rimase comunque un’Italia che si identificò con la Resistenza, e una che mal la sopportò e l’osteggiò. Una che si sforzò di continuare l’opera di bonifica contro quell’espressione dell’”autobiografia della nazione” che è stato il fascismo, e un’altra che, sotto traccia, in quell’autobiografia ha continuato a riconoscersi. Un’Italia che stava (fino a ieri pubblicamente) con i suoi partigiani, e un’altra che continuava (fino a ieri privatamente, o quasi) a diffidarne, se non addirittura a rimpiangere il proprio impresentabile passato.
Ora quella “seconda Italia” (fino a ieri forzatamente in disparte, per lo meno nel giorno dell’anniversario) ha rialzato la testa. Si è dilatata nello spazio pubblico fino a occuparlo maggioritariamente. E ha rovesciato il rapporto. L’autobiografia della nazione è ritornata al potere. Non solo ha ripreso pubblicamente la parola, ma ha ricominciato a dettare l’ordine del discorso. A rifare il racconto pubblico sul nostro “noi”. Tutto il frusto dibattito di questi giorni sul nuovo significato del 25 aprile si svolge all’insegna di quella domanda di “ricomposizione” delle fratture, che nel fingere di “celebrare” le scelte di allora in realtà le neutralizza e offende. Di più: ne rovescia radicalmente il segno.
Ci sta alle spalle un mese in cui abbiamo assistito a un clamoroso tentativo d’imporre, con la logica dell’emergenza, un clima asfissiante di rifiuto della critica e di esaltazione del culto del capo; in cui il sistema dell’informazione ha raggiunto vette di servilismo imbarazzanti; in cui l’opposizione, ridotta a fantasma, ha balbettato o si è adeguata. Come non vedere quanto l’appello alla “memoria condivisa”, in questo contesto, suoni sostegno a quella stessa domanda di unanimismo che sta dietro ogni logica di regime? Quanto essa risponda a quella sorda domanda di far tacere le differenze e le dissonanze che costituì il vero “male oscuro” delle nostre peggiori vicende nazionali?
Per questo – per tutto questo – per la prima volta, nei sessantaquattro anni che ci separano dall’evento che si dovrebbe festeggiare, le piazze ci appaiono perdute. In esse non ci troviamo più a casa nostra, non tanto e non solo perché i nostri avversari hanno prevalso (questo accadde anche nel 1994, e il 25 aprile in piazza ci fummo, eccome!). Ma perché una delle due Italie, quella che aveva riempite quelle piazze come luoghi di una democrazia faticosamente presidiata, non c’è più. La sua voce si è affievolita, fin quasi al silenzio, per oblio delle proprie radici, incertezza sulle proprie ragioni, pigrizia mentale… Per insipienza degli uomini e fragilità del pensiero. Non andremo al mare, in questo giorno. Questo no. Ma in montagna forse sì, lì idealmente si dovrebbe ritornare, dove l’aria è più fine e favorisce la riflessione e il pensiero. Sul mondo nuovo che stentiamo a capire. E su di noi, che ci siamo smarriti. Ne abbiamo un impellente bisogno.
Marco Revelli

venerdì 24 aprile 2009

venerdì 17 aprile 2009

Sulla COSCIENZA DI CLASSE

« Uno schiavo che non ha coscienza di essere schiavo e che non fa nulla per liberarsi, è veramente uno schiavo. Ma uno schiavo che ha coscienza di essere schiavo e che lotta per liberarsi già non è più schiavo, ma uomo libero » (Lenin)

Se la coscienza di classe rende i proletari (precari, impiegati, operai, cottimisti, disoccupati ecc cosa sono oggi se non proletari?) consci del fatto che la propria situazione di sfruttati è organizzata, realizzata a tavolino, dalle classi dirigenti che per godere del lusso del capitale hanno necessariamente bisogno di una massa indistinta di popolazione assoggettata, come si può affrontare la CRISI del capitalismo senza ritornare a porre centralmente la questione della coscienza di classe?

In una situazione di assoluto sfruttamento, di povertà dilagante, che è quella che viviamo attualmente, guardiamo i dati relativi alla cassa integrazione, il "povero" non può far altro che "campare alla giornata" cercando respiro economico in atteggiamenti spesso di sottomissione totale al padronato, che possano fruttargli un "tozzo di pane" (chi conosce l’aria che si respira in un cantiere sa bene di cosa si parla). Bene, in circostanze di questo tipo, il singolo totalmente slegato da un contesto collettivo, resiste alla crisi autonomamente perseguendo la logica dell'arrangiarsi anche e soprattutto a discapito del suo pari.

Questo quadro favorisce e rafforza ancor di più la classe padronale che sfrutta la situazione di scompiglio tra le “fila nemiche” (scusate la metafora militarista da neo brigatista; fa schifo pure a me, ma rende l’idea) che, invece di compattarsi e rivendicare una redistribuzione delle ricchezze, continuano a perseguire una "politica" individualista estrema.

Ovviamente, alla luce di quanto affermato, il coltello dalla parte del manico è sempre di più nelle mani di quei soggetti che oggi dovrebbero pagare la crisi, la loro crisi, ed invece continuano a sguazzare nella ricchezza per assenza di "nemici"; chi infatti dovrebbe opporsi e rivendicare un nuovo mondo, perché non ha più nulla da perdere, è sempre troppo impegnato a fottere il proprio pari per racimolare il famoso tozzo di pane (pensate agli uffici, ai cantieri, alle scuole, alle cooperative dove lavorate e provate a dire il contrario) proprio per mancanza di coscienza di classe.

L'unica reale opposizione, e il comunista questo dovrebbe saperlo bene, passa per lo sradicamento delle logiche individualiste (del tipo: “campo alla giornata e che mi frega del mio compagno… basta che oggi magno”) e attraverso la presa di coscienza, da parte dei singoli individui delle classi subalterne del proprio essere parte integrante di una classe sfruttata.

Attenzione… in anni passati, neanche troppo lontani, alcuni sono approdati alla lotta “radicale”, violenta, anche per uno stato di frustrazione sorto dal’aver realizzato prima di altri la propria condizione di sfruttato. La realizzazione di ciò e il ritrovarsi circondato da una marea di “menefreghisti-individualisti” (il quadro odierno sopra descritto) può aver indotto alcuni a pensare a loro stessi come ad una cerchia di eletti, una avanguardia (vi dice qualcosa?), che poteva arrogarsi il diritto di perseguire il proprio pensiero con qualsiasi mezzo.
ATTENZIONE… ritorniamo a parlare di DOSCIENZA DI CLASSE.

lunedì 6 aprile 2009

terremoto Aquila

Dal Prc Abruzzo

Chiunque volesse partecipare all'organizzazione dei soccorsi può chiamare:

Federazione Prc Pescara: 085.66788 (accoglienza evacuati)
Richi: 339.3255805 (generi di prima necessità come acqua, pasta, latte UHT, biscotti)
Marco Fars: 334.6976120
Francesco Piobbichi: 334.6883166
o spedire una mail al seguente indirizzo:
piobbico@hotmail.com

Indirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo Servono generi di prima necessità (acqua, pasta, latte UHT, biscotti), coperte, tende, gazebo e materiale utile alla rimozione delle macerie

ATTENZIONE! Facciamo un appello a tutti coloro che stanno partendo per portare il loro soccorso: non partite senza aver prima chiamato i numeri messi a disposizione, venite attrezzati e soprattutto autosufficienti sia per quanto riguarda il vitto che l'alloggio.

Se volete invece mandare un contributo economico potete spedirlo a:
Conto Corrente Bancario
RIFONDAZIONE PER L'ABRUZZO
IBAN: IT32J0312703201CC0340001497

dall'Udu

UN PRIMO AIUTO PER L’AQUILA
Stampa E-mail

In queste ore drammatiche che stanno vedendo salire il numero di vittime nella provincia de L’Aquila, l’Unione degli Universitari nel ricevere numerose telefonate di studenti di tutta Italia che offrono la propria disponibilità per fornire un aiuto, chiede a coloro la disponibilità di posti letto.

Inviate eventuali disponibilità a organizzazione@udu.itIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo . tel. 0643411763

dall'Avis





la Milano antifascista

Giusto per far vedere quello che i media non mostrano....
a guardare le immagini su Repubblica, Corriere e soci sembrano 100 fascistelli e 10 antifascisti
invece... valutate voi


Sotto lo striscione appeso dai Compagni sul palazzo della Scala; RESISTENZA



sabato 4 aprile 2009

Intanto a Strasburgo...

(articolo dal sito di Peace Reporter http://it.peacereporter.net/articolo/15005/Strasburgo%2C+Afghanistan)

Guerriglia al vertice della Nato

Barricate, incendi, devastazioni, cariche, pestaggi, spari di granate lacrimogene e proiettili di gomma sui dimostranti, decine di feriti e trecento arresti. Si apre in un clima di guerriglia urbana il vertice della Nato a Strasburgo, Khel e Baden-Baden. Oggi nelle tre località franco-tedesche regna una calma da stato d'assedio, ma ieri sera e questa notte Strasburgo è stata un campo di battaglia. A fronteggiarsi, centinaia di agenti anti-sommossa francesi e le frange più radicali del movimento di protesta, i cosiddetti 'black-block'. Oltre cento dei trecento arrestati di ieri sono ancora in detenzione.

Truppe schierate. Al vertice, che celebra il sessantesimo anniversario dell'Alleanza Atlantica, i leader mondiali discuteranno della guerra in Afghanistan e della necessità di inviare più truppe per combattere i talebani. Intanto i soldati della Nato si preparano a fronteggiare i propri concittadini: centinaia di truppe sono state schierate a difesa delle 'zone rosse' di Khel e Baden-Baden nel caso in cui i 15 mila poliziotti tedeschi non bastino a gestire i 25 mila dimostranti attesi per oggi nelle due località. A Strasburgo, dove sono schierati 25 mila agenti francesi, si aspettano addirittura 40 mila manifestanti.

I temi del vertice. In questo summit, poco celebrativo e molto operativo, si parlerà di Afghanistan (e di Pakistan) ma non solo. Sul tavolo c'è la storica decisione francese di rientrare nell'alleanza (da cui Parigi era uscita con De Gaulle nel '62), la ridefinizione dell'assetto strategico della Nato (non più alleanza difensiva euro-atlantica ma struttura di intervento militare globale) e dei rapporti con la Russia (che potrebbe dare una mano alla Nato in Afghanistan in cambio di qualche concessione).

di Enrico Piovesana




giovedì 2 aprile 2009

dal manifesto...

Valentino Parlato
Dagli antichi fattori ai nuovi manager


Una delle novità di questa crisi è che i padroni non ci sono più. Ci sono solo i manager: da punire, tassare, sequestrare. A pensarci un po' sembra di esser tornati alla civiltà contadina, quando i baroni proprietari stavano nei bei
palazzi di città (quasi tutti gli agrari pugliesi abitavano a Napoli) e in campagna c’erano solo i fattori contro i quali si scatenava l’ira di braccianti e contadini.
Questo fenomeno di oscuramento dei proprietari è cominciato da tempo: le Spa (società anonime) furono già un bell’esperimento di dissimulazione
della proprietà, che continuava a sfruttare nascondendo il volto.
Ma, forse, in questo nascondersi c’è anche un indebolimento del diritto di proprietà e vale ricordare che nelle campagne la proprietà assenteista apre le porte alla riforma agraria.

E’ un dato di fatto che i manager, come i fattori di un tempo, con le stock option e altro hanno ridotto i guadagni del proprietario, che pur di rimaner nascosto accettava di pagare il tributo. E, anche in Italia, alcuni eccellenti manager
(non farò nomi) si sono un po’ arricchiti alle spalle dello sfruttamento dei padroni sui lavoratori. Si potrebbe ancora aggiungere che la primazia dei managers potrebbe essere un primo passo per l’abolizione della proprietà, nel senso che i proprietari sono diventati rentiers. Intanto la rabbia dei lavoratori in Francia si scatena contro i manager, che sono gli attuali fattori. La storia delle campagne può insegnare qualcosa.
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